La Gambalunghiana nel Settecento: il ruolo del Cardinale Garampi

Dei bibliotecari a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo - Giuseppe Simbeni (dal 1694 al 1696), Girolamo Soleri (dal 1696 al 1711) e Ignazio Vanzi (dal 1711 al 1715) - ci rimangono sbiadite tracce. L'incremento dei libri è modesto: il catalogo topografico compilato dal Soleri registra 5877 libri; quello del Vanzi ne elenca 7487, collocati in tre sale. I manoscritti costituiscono un piccolo ma significativo corpus: sono un'ottantina, tra i quali spiccano il fulgido Ovidio con l'arme dei Badoer, elegantemente decorato da un miniatore veneziano dell'ultimo quarto del XV secolo, e un cospicuo gruppo di codici umanistici


Il solo ricordo che resta della quasi trentennale reggenza di Antonio Brancaleone Brancaleoni (bibliotecario dal 1715 al 1741) è legato a un sedicenne dai precoci interessi bibliografici, codicologici, archivistici e antiquari, che nel 1741, ultimo anno di direzione dell'anziano Brancaleoni, era assiduo della Gambalunghiana: al punto da esserne nominato vicecustode «sul campo». Il ragazzo - che era il futuro arcivescovo, cardinale, nunzio apostolico e prefetto degli Archivi vaticani Giuseppe Garampi (1725-1792) - era già in contatto col Muratori e in una lettera gli segnalava alcuni codici e gli chiedeva una lista di opere da acquistare.


Alla biblioteca in cui aveva mosso i suoi primi passi il Garampi rimarrà sempre legato e ne favorirà in ogni modo l'accrescimento e la qualificazione: sia procurando «i libri migliori moderni [...] legati e dorati», sia incoraggiando il deposito di fondi manoscritti. Se il rispettoso suggerimento al suo maestro Giovanni Bianchi (in arte Jano Planco) di donare le sue carte alla Gambalunghiana troverà orecchie distratte, avranno invece successo le sue pressioni sulla Curia romana per il ricovero nella biblioteca pubblica delle pergamene dell'abbazia di San Giuliano e quelle sui confratelli della Compagnia di San Girolamo, che il 15 agosto 1755 delibereranno il deposito di tre importanti incunaboli e di cinque codici preziosissimi: il Passionario riminese del XII secolo, il De civitate Dei scritto per Pandolfo Malatesta dall'amanuense Donnino di Borgo San Donnino e superbamente miniato da un artista emiliano (che Simonetta Nicolini ha identificato col cosiddetto Maestro della Sagra di Carpi), la raccolta dei libelli antigiudaici di Nicola di Lira e Girolamo Ispano, già appartenuta ai Gonzaga, le epistole di San Girolamo e la versione francescana del Messale Romano in lingua e scrittura armene.


Il Garampi, che già in vita aveva donato alla biblioteca alcuni rari cimeli - fra questi la Regalis historia, scritta da un frate Leonardo per Carlo Malatesta e decorata da un miniatore bolognese - alla sua morte, nel 1792, la arricchirà con un lascito generosissimo che comprende, oltre agli apografi e alle schede (materiali, entrambi, di capitale importanza per la storiografia riminese), 27 incunaboli e il nucleo più significativo della sua collezione di manoscritti, forte di 86 unità, riunita in oltre trent'anni di viaggi, ricerche, contatti e scambi. Ricorderemo appena una miscellanea in beneventana scritta e ornata a Telese fra il 1144 e il 1154, un Breviario fiorentino del XV secolo squisitamente miniato e, innanzi tutto, lo splendido codice membranaceo della Divina Commedia, trascritto tra il 1392 e il 1394 dal gentiluomo veneziano Giacomo Gradenigo, corredato da un commento che è una redazione accresciuta di quello di Jacopo della Lana e decorato da 24 eleganti e argute miniature di mano dello stesso Gradenigo e da fregi e iniziali di un secondo artista padovano.


E' grazie al Garampi che la Gambalunghiana compirà quella che Angelo Turchini ha chiamato «la svolta del Settecento», cioè la partecipazione della biblioteca alla ventata di rinnovamento che - per precipuo merito del Planco e della sua scuola - aveva spezzato il lungo e soffocante isolamento provinciale di Rimini. Testimonia dello svecchiamento, oltre alla sostanziosa crescita quantitativa e qualitativa dei fondi bibliografici e alla loro riorganizzazione, la statura scientifica e culturale dei bibliotecari, relativamente più alta. Alla breve reggenza (dal 1742 al 1748) di Lodovico Bianchelli, rimosso dal suo ufficio ed esiliato a Senigallia per aver contrastato vigorosamente, nel Consiglio cittadino, l'aggregazione allo stesso di un ricchissimo mercante raccomandato da Benedetto XIV, succedette quella di Bernardino Brunelli (dal 1748 al 1767), che il cardinale Oddi sostenne, giudicandolo «soggetto di una piena onoratezza e capacità» e che alla sua morte, in effetti, fu ufficialmente proclamato «bibliotecario benemerito». Al Brunelli si deve, oltre all'accurata compilazione di due ponderosi cataloghi, l'alletimento - nel 1756 - della quarta sala, arredata con «scansie di abete dipinte a oglio con gentili colori»: un piccolo capolavoro del rococò riminese, altrettanto funzionale che aggraziato, realizzato su disegno del pittore Giovan Battista Costa. La sala accolse degnamente quei «libri [...] moderni» che, da Roma, Giuseppe Garampi continuava instancabilmente a fornire. A Bernardino Brunelli subentrò il figlio Epifanio (bibliotecario dal 1767 al 1796), un protetto del Garampi la cui gestione tecnicamente competente ma alquanto indolente e trascurata fu irriconoscente verso il benefattore e costrinse le autorità a ripetuti provvedimenti.